Al centro Darwin del Museo di Storia Naturale di Londra

Sono stata a Londra, finalmente la triade è completa: ho visto il Louvre, il MoMA e il British Museum.
Se avessi cominciato a viaggiare qualche anno fa molte cose sarebbero state più semplici, perché quando la memoria ha un appiglio nell’esperienza diretta ricorda e interiorizza più facilmente che basandosi solo sui libri. Vabbè, non è ancora troppo tardi. 🙂
Il Museo più interessante dal punto di vista tecnologico è certamente quello di Storia Naturale ed in particolare la sezione Darwin.
Estremamente didattico e pensato per i più piccoli ha una buona impostazione dal punto di vista allestitivo perché cerca di ridurre la distanza tra il visitatore e gli oggetti che contiene.
Facciamo degli esempi: su alcuni tavoli è facile trovare alcuni degli strumenti che gli scienziati usano nei loro laboratori (ovviamente si tratta di riproduzioni in materiali resistenti) che chiunque può toccare e guardare da vicino, ma la cosa divertente è che a ciascuno è abbinato un video che racconta a cosa serve esattamente l’oggetto in questione. Basta toccare l’oggetto che il codice a infrarosso fa partire il video.
Altra cosa interessante sono i leggii touch da sfogliare: niente di nuovo se non per delle intromissioni in flash che permettono ad un elemento selezionato di muoversi. Sono soprattutto libri di botanica quindi è divertente toccare – ad esempio – una farfalla, leggere qualche informazione e poi vederla volare via. I bambini erano molti divertiti…
Il percorso di visita è tutto una scoperta di video, retroproiezioni, multimediali, vetrine interattive. Ma la cosa più bella sono i tavoli interattivi che contengono giochi didattici ed esperimenti, tra questi il più interessante era certamente questo:

su una superficie touch vengono proiettate delle immagini, l’utente interagisce con gli oggetti sul tavolo (deve metterli  dentro la sacca dell’esploratore) e con il personaggio nel monitor ovvero il capo della spedizione; il professore prima mostra e spiega gli attrezzi poi li lancia sul tavolo dove compaiono magicamente. Il video ha anche una webcam per scattare una foto all’utente e personalizzare il suo cartellino da esploratore.
Non so se ricordate il video del progetto Natal che X-Box stava mettendo a punto, ecco questa applicazione va proprio in quella direzione anche se manca ancora di interattività vocale.
Un aspetto da non sottovalutare è stata la differente reazione di adulti e bambini all’interazione con la macchina: gli adulti erano divertiti, decisamente sorpresi e un po’ impacciati, i bambini – invece – erano molto divertiti ma per nulla sorpresi, una interazione decisamente più “naturale” la loro.
A questo punto dovrebbe partire la discussione sulle differenze tra le interazioni uomo-macchina dei nativi digitali e dei dinosauri digitali.

Museo dell’Olocausto – Washington

Continuamo il viaggio negli Stati Uniti dei Musei.
Sappiamo tutti che sono un popolo di megalomani, che sanno costruire un film di tre ore da una storia inconstistente come quella di Avatar (so che dovrò prendere una scorta per tornare a casa).
Quindi non stupisco nessuno quando dico che hanno costruito un meraviglioso Museo dell’Olocausto senza aver vissuto l’Olocausto.
Sinceramente sono andata soprattutto per curiosità.
Il museo è su tre piani, ognuno copre il racconto di un periodo storico che va dal 1933 alla fine della guerra.
La cosa interessante però avviene prima di entrare. Seduti tranquillamente a dei banchetti ci sono dei signori e delle signore anziane. Hanno le maniche corte e intravedo un numero tatuato.
Sono dei sopravvissuti e sono loro il vero oggetto del museo.
Chi vuole può sedersi accanto a loro e chiacchierare. Una testimonianza “viva” in un posto dove testimonianze materiali non ci sono.  Idea geniale numero 1.
Facciamo per entrare, ma le visite sono programmate ogni ora. L’area del museo sarà piccola – penso io ingenuamente.
Aspettiamo il nostro orario e ci mettiamo in fila. Dobbiamo prendere un ascensore. Prima di entrare ci danno una carta di identità di cartoncino.
Ognuno di noi ha la carta di identità di un prigioniero ebreo. Con questa devo fare la visita. Idea geniale numero 2.
Io sono Guta Blass Weintraub, sono nata il 22 Gennaio del 1924 a Lodz, in Polonia e sono una simpatica ragazza di buona famiglia.
Arriva l’ascensore. Saliamo, ma l’interno è inquietante.
Non è sporco, ma trasmette una sensazione strana. Parte un video che ci spiega cosa sta accadendo. Stiamo facendo un viaggio indietro, non è un luogo qualsiasi quello che stiamo per vedere, è il ghetto di Varsavia prima della guerra.
Ora capisco: la carta di identità, l’attesa dell’ascensore, l’interno inquietante… siamo noi i deportati! Quello che stanno costruendo pian piano è l’immedesimazione del visitatore con gli ebrei.  Idea geniale numero 3.
Le porte dell’ascensore si aprono. È peggio di come me lo aspetto. Luci soffuse e fredde, silenzio, grandi scritte lapidarie.
Cammino lungo il percorso di visita.
Video, racconti, le voci dei deportati, i pianti dei bambini, le urla delle SS, i vetri rotti dei negozi, una montagna di capelli e di scarpe accatastate.
Entro in un anfratto: è il vagone di un treno che va nei campi di concentramento, ricostruito a grandezza naturale.
Ancora video, ma questa volta mi fermo a vederlo tutto: racconta degli esperimenti sulle donne ebree, i monitor sono a terra, per vederli devo sporgermi da una ringhiera. Simulano i corpi gettati a terra senza criterio, corpi inutili, come di animali perché per guardare devo affacciarmi ad un recinto.
Nessuno ride, così come nessuno ha il coraggio di guardare fino in fondo la Tower of faces. Sono solo una minima parte dei morti, ma ti guardano dall’alto e sembrano dirti: “Questo è successo davvero, non dimenticare.
Il silenzio è assordante.
Nella Hall of Remenbrance non c’è niente. Una gigantesca sala vuota piena di luce che stona con il buio delle sale. Sedili di marmo per pregare, una fiammella accesa: la fiamma del ricordo.
E Guta? Lei è sopravvissuta, ma molti altri del mio gruppo non ce l’hanno fatta.
Usciamo. Con tanta amarezza, con tanti pensieri, consapevoli che la cattiveria umana non ha limiti, ma neanche la creatività dell’architetto ebreo nato in Germania James Ingo Freed.