Ricominciamo dal principio

Qualche giorno fa ho riletto e ripulito il primo capitolo di una tesi di giurisprudenza, ovviamente non ho lavorato sui contenuti ma solo sulla forma per rendere più chiara e comprensibile una disciplina solitamente ostica.
Ci è voluto un po’, vuoi per la materia che vanta uno storico linguaggio da tecnicismi vuoi perché la maggior parte della gente che frequenta l’università non ha molta pratica con la scrittura.
Allora mi sono chiesta se non fosse il caso di fare un passo indietro, rallentare l’andatura e ricominciare dalle basi.
Gli errori più frequenti che ho trovato sono stati di sintassi, quindi farei una scaletta di ciò che secondo me chi comincia a scrivere deve tenere ben presente:

  • evitare frasi troppo lunghe (ho trovato periodi di quasi mezza pagina) piene di incisi, di parentesi, di concetti messi uno dentro l’altro che come potete vedere crea un fastidioso senso di affanno, ridondanza e fa perdere il filo del discorso lasciando all’uso del gerundio, tempo verbale che tanto chiaro non è, di chiarire di cosa stiamo parlando; anche se a questo punto la domanda sorge spontanea: di che stiamo parlando?
  • Io, persona estranea agli argomenti, eviterei di staccare il soggetto dal suo verbo perché come potete notare crea un effetto suspance del tutto fuori luogo;
  • per finire, secondo voi i cd. acr. e le varie sigle mute NLS, NUMNG, NNSCD aggiungono INFO o mi fanno pensare che forse non sai neanche tu di cosa stai parlando?

Scrivere per la mente e scrivere per gli occhi

Sono convinta che il processo di scrittura può procedere in due modi: per aggiunte o per sottrazioni. C’è chi è di natura prolisso e chi più sintetico, chi scrive e poi toglie, chi aggiunge per completare. Molto dipende dal tipo di documento che si vuole realizzare: un articolo di giornale, un racconto, un post, una canzone, una relazione tecnica, e così via.
Nella prima stesura di un testo mi capita spesso di aggiungere concetti e puntualizzarne altri, ma devo lavorare di fino per quanto riguarda il lessico: ripeto sempre troppi aggettivi e congiunzioni che non aggiungono nulla al contesto e di cui mi accorgo solo alla fine. Mentre scrivo di getto sento il bisogno di mettere tanta colla alle idee, sottolinearle con la matita, con la penna, con l’evidenziatore; solo dopo mi rendo conto che bastava un punto e a capo per attirare l’attenzione.
Il lavoro che faccio è prima di rimpolpo poi di limatura spietata: aggiungo un concetto poi lo riscrivo riducendolo a poche parole.
Qualche giorno fa ho visto l’intervista a Saviano pubblicata con l’inserto “Io scrivo” del Corriere.
Più di tutto ho apprezzato il passaggio in cui ha raccontato la differenza che ha trovato tra scrivere il libro Gomorra e riadattarlo per la versione cinematografica.
Nella sceneggiatura il racconto si fa per immagini, è più asciutto e privo di tutti i particolari che invece hanno senso nel romanzo. L’eccesso di dettagli enfatizza inutilmente la scena e la rende falsa, artificiosa, retorica. Perchè in un libro il lettore usa solo l’immaginazione e con quella costruisce gli ambienti, dà un corpo ai personaggi, immagina le relazioni mentre in un film i personaggi hanno un volto, i dialoghi una voce, le relazioni sono palesate dai gesti e dagli sguardi.
In quel caso il suo lavoro non è stato di fino ma proprio di taglio: scene, ambienti, dialoghi, oggetti che avrebbero reso poco naturale lo snodo del racconto con la macchina da presa.
Trovo affascinante scoprire il dietro le quinte della scrittura: romanzo e sceneggiatura, stessa matrice sviluppo diverso.
Discorso simile vale per i testi delle canzoni. Ogni parola ha un peso enorme perché in pochi minuti deve raccontare, descrivere, emozionare, sposarsi con il ritmo. Impegno non da poco.
Volevo chiudere con una frase tratta da “Il sogno di Maria” di Faber, l’ho ascoltata più volte ma non sono stata in grado di scegliere. Ascoltatela tutta.