Museo dell’Olocausto – Washington

Continuamo il viaggio negli Stati Uniti dei Musei.
Sappiamo tutti che sono un popolo di megalomani, che sanno costruire un film di tre ore da una storia inconstistente come quella di Avatar (so che dovrò prendere una scorta per tornare a casa).
Quindi non stupisco nessuno quando dico che hanno costruito un meraviglioso Museo dell’Olocausto senza aver vissuto l’Olocausto.
Sinceramente sono andata soprattutto per curiosità.
Il museo è su tre piani, ognuno copre il racconto di un periodo storico che va dal 1933 alla fine della guerra.
La cosa interessante però avviene prima di entrare. Seduti tranquillamente a dei banchetti ci sono dei signori e delle signore anziane. Hanno le maniche corte e intravedo un numero tatuato.
Sono dei sopravvissuti e sono loro il vero oggetto del museo.
Chi vuole può sedersi accanto a loro e chiacchierare. Una testimonianza “viva” in un posto dove testimonianze materiali non ci sono.  Idea geniale numero 1.
Facciamo per entrare, ma le visite sono programmate ogni ora. L’area del museo sarà piccola – penso io ingenuamente.
Aspettiamo il nostro orario e ci mettiamo in fila. Dobbiamo prendere un ascensore. Prima di entrare ci danno una carta di identità di cartoncino.
Ognuno di noi ha la carta di identità di un prigioniero ebreo. Con questa devo fare la visita. Idea geniale numero 2.
Io sono Guta Blass Weintraub, sono nata il 22 Gennaio del 1924 a Lodz, in Polonia e sono una simpatica ragazza di buona famiglia.
Arriva l’ascensore. Saliamo, ma l’interno è inquietante.
Non è sporco, ma trasmette una sensazione strana. Parte un video che ci spiega cosa sta accadendo. Stiamo facendo un viaggio indietro, non è un luogo qualsiasi quello che stiamo per vedere, è il ghetto di Varsavia prima della guerra.
Ora capisco: la carta di identità, l’attesa dell’ascensore, l’interno inquietante… siamo noi i deportati! Quello che stanno costruendo pian piano è l’immedesimazione del visitatore con gli ebrei.  Idea geniale numero 3.
Le porte dell’ascensore si aprono. È peggio di come me lo aspetto. Luci soffuse e fredde, silenzio, grandi scritte lapidarie.
Cammino lungo il percorso di visita.
Video, racconti, le voci dei deportati, i pianti dei bambini, le urla delle SS, i vetri rotti dei negozi, una montagna di capelli e di scarpe accatastate.
Entro in un anfratto: è il vagone di un treno che va nei campi di concentramento, ricostruito a grandezza naturale.
Ancora video, ma questa volta mi fermo a vederlo tutto: racconta degli esperimenti sulle donne ebree, i monitor sono a terra, per vederli devo sporgermi da una ringhiera. Simulano i corpi gettati a terra senza criterio, corpi inutili, come di animali perché per guardare devo affacciarmi ad un recinto.
Nessuno ride, così come nessuno ha il coraggio di guardare fino in fondo la Tower of faces. Sono solo una minima parte dei morti, ma ti guardano dall’alto e sembrano dirti: “Questo è successo davvero, non dimenticare.
Il silenzio è assordante.
Nella Hall of Remenbrance non c’è niente. Una gigantesca sala vuota piena di luce che stona con il buio delle sale. Sedili di marmo per pregare, una fiammella accesa: la fiamma del ricordo.
E Guta? Lei è sopravvissuta, ma molti altri del mio gruppo non ce l’hanno fatta.
Usciamo. Con tanta amarezza, con tanti pensieri, consapevoli che la cattiveria umana non ha limiti, ma neanche la creatività dell’architetto ebreo nato in Germania James Ingo Freed.

NY – prima parte

Cominciamo dal principio.
Sono stata a New York, poi nel new England, poi in Canada fino al Quèbec.
Un viaggio meraviglioso, inutile dirlo.
Ho fatto un tour de force di quattro giorni consecutivi per vedere:

  • Metropolitan Museum
  • MoMa
  • Museo di storia naturale (quello di Una notte al Museo)
  • Guggenheim Museum

Per i minori mi sono limitata a:

  • museo dell’immigrazione di Ellis Island
  • museo dell’Olocausto a Washington
  • museo dell’aerenautica
  • Biblioteca pubblica di New York (quella in cui vuole sposarsi Carrie di Sex and the city 1)

Quelli pseudo-simpatici, perché in realtà delle schifezze:

  • museo di Madame Tussaud’s
  • museo del sesso (deludente marchetta, tranquilli)

non voglio esagerare troppo e annoiare tutti, quindi farò qualche breve considerazione generale. La prima è che gli americani sono esagerati in tutto.
Spazi immensi, musei enormi, bellissimi, curatissimi, con la tecnologia più moderna che esite.
Wi-fi in ogni dove, dappertutto.
I Musei sono gratis. Ebbene si, non si paga niente per entrare anche se è fortemente consigliata un’offerta. Sono così grandi che non ci sono file da fare. Ci sono Mac 28” per navigare nelle collezioni, le audioguide (N.B. non palmari complicati!) non si pagano perciò le prendono tutti (ma proprio tutti) e sono curatissimi in tutto tanto che anche la caffetteria, il ristorante e il bagno ti lasciano senza fiato.

Sono troppo avanti. Facciamo un esempio: passeggiando per il Metropolitan ho scoperto una cosa allucinante. Sono stati capaci di ricostruire l’ambiente del Nilo con tanto di specchio d’acqua e canniccio perchè hanno evidentemente “trovato” da qualche parte una tomba egiziana.
Così come hanno “trovato” casualmente per strada una domus romana di Pompei… gli affreschi di un’intera stanza staccati e ricomposti a mostrare una casa pompeiana. Che rabbia che ho provato!

Dinosauri veri. Hanno i dinosauri veri, enormi, giganteschi con lo sguardo cattivo e la coda lunghissima ed hanno costruito una pedana di plexiglass per passarci sopra e guardare sotto.
Ad un certo punto mi sono accorta che in una stanza (era almeno 200 mq) gli scheletri dei dinosauri erano appesi al soffitto.

Mi sono chiesta: come mai? Poi ho capito. Ero negli abissi.

Mi spiego meglio. La stanza era allestita come se fosse l’abisso, quindi io visitatore ero un pesciolino piccolo piccolo e guardavo dal basso questi mastodontici dinosauri marini. Semplicemente meraviglioso.
Non vi dico i bambini. Delle schegge impazzite…
Se penso che il più grande museo italiano di Storia Naturale è quello di Torino la cui punta di diamante sono le uova di dinosauro ritrovate…
La verità è che questi musei hanno dei budget probabilmente vicini al PIL italiano. Quindi il confronto non ha senso.

Potrei andare avanti per molto, ma voglio centellinare il racconto e assicurare i lettori che non tesserò le lodi incondizionate dei musei americani. 😉