Scrivere una mail: quattro semplici regole di buon senso

mailScrivere una mail sembra una cosa semplice e di poco conto, invece richiede tanta attenzione e buon garbo.
Certo, tutto dipende dal destinatario e dal contenuto – per intenderci se l’oggetto della mail è raccontare una storiella ad un amico non c’è bisogno di pensarci troppo – ma se il destinatario è un importante cliente la cosa cambia un po’.

La regola numero uno è fare attenzione alla grammatica.

Mi è capitato di ricevere una mail con ben due orrori di grammatica e, devo dire la verità, la mia considerazione per quella persona è notevolmente scesa. Non posso farci niente, passi per congiuntivi e periodi ipotetici, ma non posso tollerare la mancanza di “H” o di “è”. Basta rileggere la mail prima di inviarla. Semplice.

Altra regola importante è la chiarezza di esposizione.

Frasi brevi, ma non troppo. È importante esporre il concetto in forma concisa evitando di aggiungere troppi particolari, per quelli meglio il telefono. In alcuni casiper rendere più evidente il messaggio, metto in grassetto la parola o la frase chiave.
La mia idea di mail è quella di uno strumento di scambio veloce ma duraturo, non certo di un romanzo a puntate.
Lo schema quindi dovrebbe essere:

  • saluti (non mi piace chi dimentica questa forma di cortesia)
  • testo del messaggio
  • saluti finali
  • firma.

Capitolo stile. Qui si apre un mondo.

C’è chi fa subito l’amicone (quanta confidenza, abbiamo mai mangiato insieme?), chi è eccessivamente formale (ma dai, siamo nel 2011 mica al tempo del re!), chi scrive come se stesse parlando a voce alta e non si risparmia formule diciamo “colorite” (mi dispiace doverti dire che non sei James Joyce e che il flusso di coscienza non ti viene bene come a lui).
Se scrivo una mail ad una persona che non conosco non mi piace rivolgermi con il tu, preferisco il lei ma evito le maiuscole in corpo di parola (tipo “sono a inviarLe”). Mi piace usare uno stile formale ma fresco, gentile ma non esagerato. Gli eccessi mi fanno sempre ridere.

Infine l’oggetto. Questo mistero dell’universo.

“Link utile” oppure “sito web” o ancora “Il telefono funziona!!!!!!!!!!!!!” (ho nella posta una mail così, giuro).
L’oggetto deve dire in due parole di cosa parla la mail e dare indicazioni chiare sul perché leggerla (indicare il progetto prima di tutto potrebbe essere importante). Il mio capo, ad esempio, riceve decine e decine di mail al giorno. Ovvio che avrà bisogno di smistarle e dargli un ordine di priorità. L’oggetto deve servire a:

  • assegnare una priorità tra le mail
  • smistarle in maniera agevole
  • ritrovarle anche a distanza di tempo con la stessa semplicità.

So che mi sono dilungata troppo ma il discorso meritava un approfondimento. Non è concluso, ma per il momento può bastare.

Scrivere per la mente e scrivere per gli occhi

Sono convinta che il processo di scrittura può procedere in due modi: per aggiunte o per sottrazioni. C’è chi è di natura prolisso e chi più sintetico, chi scrive e poi toglie, chi aggiunge per completare. Molto dipende dal tipo di documento che si vuole realizzare: un articolo di giornale, un racconto, un post, una canzone, una relazione tecnica, e così via.
Nella prima stesura di un testo mi capita spesso di aggiungere concetti e puntualizzarne altri, ma devo lavorare di fino per quanto riguarda il lessico: ripeto sempre troppi aggettivi e congiunzioni che non aggiungono nulla al contesto e di cui mi accorgo solo alla fine. Mentre scrivo di getto sento il bisogno di mettere tanta colla alle idee, sottolinearle con la matita, con la penna, con l’evidenziatore; solo dopo mi rendo conto che bastava un punto e a capo per attirare l’attenzione.
Il lavoro che faccio è prima di rimpolpo poi di limatura spietata: aggiungo un concetto poi lo riscrivo riducendolo a poche parole.
Qualche giorno fa ho visto l’intervista a Saviano pubblicata con l’inserto “Io scrivo” del Corriere.
Più di tutto ho apprezzato il passaggio in cui ha raccontato la differenza che ha trovato tra scrivere il libro Gomorra e riadattarlo per la versione cinematografica.
Nella sceneggiatura il racconto si fa per immagini, è più asciutto e privo di tutti i particolari che invece hanno senso nel romanzo. L’eccesso di dettagli enfatizza inutilmente la scena e la rende falsa, artificiosa, retorica. Perchè in un libro il lettore usa solo l’immaginazione e con quella costruisce gli ambienti, dà un corpo ai personaggi, immagina le relazioni mentre in un film i personaggi hanno un volto, i dialoghi una voce, le relazioni sono palesate dai gesti e dagli sguardi.
In quel caso il suo lavoro non è stato di fino ma proprio di taglio: scene, ambienti, dialoghi, oggetti che avrebbero reso poco naturale lo snodo del racconto con la macchina da presa.
Trovo affascinante scoprire il dietro le quinte della scrittura: romanzo e sceneggiatura, stessa matrice sviluppo diverso.
Discorso simile vale per i testi delle canzoni. Ogni parola ha un peso enorme perché in pochi minuti deve raccontare, descrivere, emozionare, sposarsi con il ritmo. Impegno non da poco.
Volevo chiudere con una frase tratta da “Il sogno di Maria” di Faber, l’ho ascoltata più volte ma non sono stata in grado di scegliere. Ascoltatela tutta.

Editor fai-da-te? Ahi ahi ahi

Partiamo da un semplice presupposto: se escludiamo i bambini tra zero e sei anni, tutti sanno leggere e scrivere. Su questo nessuno può contraddirmi.
Il fatto che tutti abbiano queste nozioni di base non significa che chiunque possa scrivere libri, nè che tutto sia leggibile.
Questa premessa è necessaria a spiegare quello che segue.
Mi sono offerta di controllare eventuali errori e refusi su un testo da stampare e distribuire per promuovere un evento enogastronomico.
Nessun problema, l’ho fatto volentieri a titolo di amicizia.
Il testo soffriva moltissimo, costretto nello spazio risicato di un A5.
Gli ho dato un po’ d’aria, riscritto alcuni concetti per renderli più accattivanti, ma devo aver esagerato. Insomma ho fatto un po’ più di sottolineare con la matita rossa gli errori di grammatica.
Il grafico ha impaginato entrambe le versioni ma la committenza non ha ritenuto opportuno perdere tempo a mostrare anche agli altri membri del “Consiglio” la nuova riscrittura. Hanno stampato quella scritta da loro.
Non voglio dire che la mia versione fosse meglio della loro, voglio puntare l’attenzione sul fatto che questa associazione che tanto tiene alla sua immagine, alla grafica dei manifesti, ai colori della stampa tipografica, alla pubblicità sui quotidiani, non ha nessuna attenzione per i testi.
Come a dire che quelli possono scriverli tutti.
Ribadisco che stiamo parlando di prestazioni gratuite (detto così mi fa anche un po’ ridere), figurarsi se avessero dovuto pagare. L’aspetto peggiore è che questo è il pensiero dei più.
Ogni volta che mi trovo in queste situazioni mi chiedo perché la professionalità del grafico, del programmatore, del project manager è indiscutibile mentre quella del content editor è messa continuamente in discussione.

Siccome non mi piacciono le persone che parlano del niente ho deciso di mostrare entrambe le versioni e lasciare a voi la facoltà di commento. 😉

A sinistra la mia versione, a destra quella stampata

rassegna

Scelte di campo

  • Mi sono scocciata di fare il punto;
  • dello stato dell’arte non mi importa;
  • non voglio rischiare malattie interfacciandomi con qualcuno;
  • basta con le corde dell’anima;
  • non twitto;
  • non follo;
  • non purchuo (o come si scrivono);
  • non bloggo neanche su questo blog perchè al massimo scrivo un post;
  • e soprattutto… basta con Assolutamente si.

Ecco, io faccio una scelta di campo e dico: basta.

Calvino e gli ebook

Tempo fa ho comprato le Lezioni americane di Italo Calvino, ma per una serie di motivi il libro è rimasto sullo scaffale a fare presenza. Due giorni fa, invece, ho deciso che era arrivato il momento di leggerlo e ho cominciato.
La premessa è di una modernità disarmante: a cavallo con il nuovo millennio Calvino racconta il futuro, le nuove forme di fruizione del libro, l’eterna lotta con le parole di pietra che appesantiscono il testo invece di dargli la spinta a volare con grazia; ma scrive negli anni ’80 e non poteva conoscere nè iPad nè Kindle. Ci sono delle persone che sono così avanti che analizzando lucidamente il presente raccontano il futuro.
Leggere la sua premessa mi ha fatto riflettere circa la querelle tra libro digitale e vecchia editoria cartacea.
C’è lo schieramento dei progressisti che leggono solo ebook e considerano la carta un accessorio vintage, chi dice – al contrario – che i nuovi formati tramonteranno presto e che non possono competere con i libri di carta.
Forse hanno ragione i primi, forse gli altri non hanno tutti i torti.
Non mi stupirei se i ragazzi portassero a scuola un iPad da 700 grammi piuttosto che sette libri da 2 chili l’uno nè vorrei a tutti i costi che mia madre consultasse le ricette su un’App.
Il punto è un altro.
Le trasformazioni sono inevitabili, e non sempre implicano una perdita. È il corso naturale della mente umana che significa guardare un oggetto con occhi diversi, associargli un nuovo significato, arricchirlo di chiavi di lettura.
Quello su cui dovremmo concentrarci non è il mezzo ma il fine.
Non importa se la gente legge i giornali su un reader o su carta, importante è che legga, si informi, pensi con la sua testa.
Se un ragazzo preferisce leggere un libro su iPad piuttosto che su carta, dico “ben venga, l’importante è che legga”.
Il “come” in questo caso implica una serie di cambiamenti che definisco secondari rispetto allo scopo più generale che è di riavvicinare la gente alla lettura e, più in generale, alle parole.
Questa sarebbe la vera rivoluzione. Se saranno gli ebook a farlo, non avrà vinto Kindle o il reader di turno, avremmo vinto tutti.

Pensieri in libertà

Svegliarsi
chiudere gli occhi
respirare
sfregarsi le mani
un piede fuori

fare
fare
fare

respirare

metti
togli
metti di nuovo
fuori
dentro
chiudi
apri

devo…
no
vorrei…
no
dopo?
chissà

pensa
si
ma… no
scrivi
si
ma… no
apri
chiudi
apri
apri
apri
pensa
si
ma… forse
riscrivi
si ma… ancora no

chiudi
salva
salva
salva

fare
fare
fare

silenzio
chiudere gli occhi
respirare
ascoltare
pensare
respirare ancora
piano
piano
piano

una giornata qualsiasi.

A lezione di europrogettazione…

Ho appena chiuso un lavoro piuttosto complesso che fa parte di un progetto di ricerca europeo.
Nonostante il record di “nessuna assenza” durante le lezioni di Europrogettazione del Master, non avevo idea di cosa poteva essere scrivere un documento di questo tipo. Ecco, ora lo so. Massacrante.
Dico solo che ho iniziato a lavorarci a metà Maggio (con la pausa di tutto Giugno) e che il risultato finale non mi ha soddisfatta del tutto.
Naturalmente il mio era solo un “deliverable” ovvero una parte del progetto ed aveva come argomento “l’interazione uomo-macchina nei device portatili all’interno dei luoghi d’arte“. Bella storia.
Scrivere un documento così lungo e con delle basi scientifiche può diventare una palestra formativa.

Prima di tutto l’indice. Cominci a buttare giù un indice di massima e inizi a cercare materiale perché un deliverable deve essere argomentato passo per passo. Libri, articoli su riviste, siti, interventi a conferenze, bisogna documentarsi moltissimo e cercare di dare un senso al mare magnum che ne viene fuori. Questa prima fase ha portato via tantissimo tempo anche perché gran parte del materiale è in inglese e va tradotto.
Quindi sono passata alla fase di stesura. Ho scritto senza farmi troppe domande sulla forma e senza sapere esattamente dove sarei arrivata. Anche questa fase è stata lunga e complessa.
Alla fine della prima bozza ero distrutta e felice ma non sapevo che il peggio doveva ancora venire.
La rilettura è stata un incubo: più andavo avanti più mi rendevo conto che a livello concettuale il discorso non filava, tante idee e spunti emersi dalle esperienze personali con le audioguide dei musei americani ma nessun progetto d’insieme di largo respiro.
Ho smontato tutto, riscritto alcuni pezzi, cercato altro materiale. Mi è venuto in mente quello che diceva Hemingway della prima stesura dei suoi libri. Verissimo.
Non so quante volte ho rivisto questo documento: ogni volta c’era qualcosa che non andava. La parte peggiore è stata arrivare a delle conclusioni, trovare un modello di interazione.

Come ho detto all’inizio non sono del tutto soddisfatta perchè il risultato non è proporzionato all’impegno che ci ho messo. Però ho imparato la lezione:

  1. un deliverable non è un romanzo quindi necessita anche di revisioni intermedie ad ogni capitolo, il rischio altrimenti è di allontanarsi progressivamente dall’obiettivo;
  2. le mie idee non interessano a nessuno e non hanno valore scientifico quindi non posso basarmi su delle sensazioni ma devo argomentare con dei testi autorevoli;
  3. il lavoro di team è tutto, dovevo chiedere più riunioni e allineamenti: avrei risparmiato molta fatica;
  4. ogni tanto è bene staccarsi un attimo dal testo e guardarlo dal di fuori, perché come in tutte le cose quando si è troppo coinvolti non si ragiona con la mente ma con il cuore;
  5. non sono stata una brava burattinaia perché dovevo tirare meglio le fila del discorso;
  6. i tempi devono essere calibrati con attenzione: nel mio caso la fase di revisione è stata così lunga e laboriosa che ho avuto poco più di un’ora per la formattazione e neanche un minuto per riaprire la stampa Pdf.

Tanti rimpianti ma anche una nuova esperienza in archivio. La prossima volta sarà diverso.

Elementi di stile nella scrittura

Ho letto Elementi di stile nella scrittura di William Strunk Jr, una lettura entusiasmante se penso che risale agli inizi del ‘900.
Ecco un estratto:

[…] Senza i nomi e i verbi la frase non esiste. Hemingway, ad esempio, usava pochissimi aggettivi e avverbi, eppure la sua scrittura è incredibilmente precisa. […]
I nomi e i verbi sono le parti più importanti di una frase e gli aggettivi vanno usati in modo funzionale. […]
Discorso a parte va fatto per l’avverbio. Secondo Stephen King dovrebbe essere eliminato il più possibile perché “con gli avverbi lo scrittore ci dice che ha paura di non essere abbastanza chiaro, di non trasmettere nel modo migliore il concetto o l’immagine”.

Es. Chiuse la porta saldamente. Se il testo è costruito bene saldamente è superfluo.

Gli avverbi “impoveriscono, sottraggono energie, spostano l’attenzione sulla loro ovvietà. […] L’avverbio raramente è funzionale. Quando lo è, diventa indispensabile. Altrimenti distrae, svuota, intensifica solo in apparenza”.[…]

***

Interessante leggere questi piccoli accorgimenti di grandi scrittori. È incoraggiante anche sapere che lo stesso Hemingway considerava la prima bozza “una merda”, vuol dire che non solo la sola a pensare che la scrittura è fatta di cuore ma soprattutto di testa e che la revisione è praticamente una riscrittura della prima versione.
Lo vedo nei miei post. Li scrivo sempre in brutta copia, rileggo, taglio, copio, incollo e spesso li riscrivo. Ecco perché per me si tratta di un vero impegno, perché non sono frutto di una trovata estemporanea – o meglio – l’idea si, ma non la stesura. Una parentesi di scrittura dal lavoro di scrittura.
Sollievo, mi sento meno incapace.

Le annotazioni su aggettivi e avverbi, invece, mi mettono in crisi perché – come tutti i pivelli – ho l’abitudine di condire troppo i testi che scrivo per paura di non essere abbastanza chiara o incisiva. Credo che sia in parte questione di esperienza.
Stranamente gli autori (non faccio riferimento a me in questo caso perché non sono un’autrice) hanno uno stile ricco e ampolloso agli inizi della loro carriera per perdere progressivamente gran parte delle ridondanze man mano che il tempo passa. Deve essere il continuo esercizio, la rilettura, le smorfie dei capi quando leggono i tuoi testi, l’orrore quando li rileggi tu a distanza di qualche tempo.
A me è capitato, ad esempio.
Mi rendo conto che lo stile sta cambiando, le parole si fanno più sottili e precise, chiamano a raccolta quei sinonimi lontani che non mi venivano mai in mente quando servivano.
I periodi lunghissimi hanno lasciato il posto a frasi brevissime, entrambe da togliere il respiro. Le prime non potevi leggerle perché non avevi abbastanza fiato per arrivare in fondo, le seconde perché erano una raffica di proiettili che non ti davano il tempo di capire cosa stava accadendo. Poi sono arrivate le congiunzioni, non troppe mi raccomando… quel tanto che basta per fare una vasca respirando ogni tre bracciate (chi nuota può capire).
È bello scrivere, è bello vedere il proprio stile crescere insieme a te perché quando tu cresci mentre lo stile resta quello di un liceale prima o poi ti sentirai un vecchio frustrato modello Padri della Chiesa o Federico Moccia.
Ho divagato un po’ ma non importa. È quasi ferragosto, tutti sono al mare, questo post lo leggerò solo io e tra una settimana tutto tornerà nella normalità.

Sceneggiare imparando

In questi giorni mi sono cimentata con un nuovo genere: la sceneggiatura di video.
È una forma di scrittura entusiasmante perché, anche se spesso presenta diversi vincoli, si presta molto alla creatività e all’estro personale.
Nel mio caso i vincoli erano diversi:

  • testo già scritto (da altri)
  • poche immagini (spesso solo disegni appena abbozzati)
  • nella maggior parte dei casi mancanza di sincronizzazione tra testo e immagine.

La sfida era quantomeno affascinante.
Sono partita guardando quello che avevano fatto altre colleghe prima di me, poi mi sono messa al lavoro.
Panoramica, zoom, dissolvenza, assolvenza, nuova immagine e così via.
Ad un certo punto ho capito che dovevo chiudere gli occhi e cercare di tradurre in indicazioni quello che vedevo nella mia mente leggendo il testo.
Giuro che non è affatto semplice.
C’è il rischio di bombardare chi guarda mostrando troppo: confronti, particolari, colori, ma anche di creare un senso di vuoto nelle parole che scorrono solitarie su uno sfondo fisso.
C’è il rischio che tante transizioni che hai immaginato non si possano realizzare perché l’inquadratura è troppo piccola o le immagini troppo rovinate, che il grafico non riesca a tradurre in video quello che per il momento è solo su carta.
Ho lavorato, ho guardato le immagini, letto il testo e scritto la sceneggiatura.
Il risultato non è stato dei migliori – lo ammetto – ma vedo margini di miglioramento e questo mi fa sperare. Dopotutto è questo uno degli aspetti più affascinanti di quel processo che chiamiamo “imparare”.

*Vendetta è vivere bene, senza di te*

Nuove forme di narrativa sono al vaglio della critica tra cui scrittura collettiva (vedi il nuovo romanzo tridimensionale che ho scoperto sabato al Materacamp) e il flash writing. Mi soffermo velocemente su quest’ultimo tema di cui riporto due esempi per rendere il concetto più chiaro:

L’ultimo uomo sulla Terra è chiuso in camera. Bussano. (Stephen King)

In vendita scarpine da neonato. Mai indossate. (Ernest Heminguay)

Questi sono solo due esempi illustri, ce ne sono molti altri anche perchè si tratta di un vero e proprio genere di narrativa che ha dato spunto a teorizzazioni e pubblicazioni e che affonda le radici lontano tra le favole di Esopo e le terzine di Dante.
Se è vero che scrivere epurando ogni riga del superfluo può essere un vantaggio per non sbagliare dicendo troppo è altrettanto vero che massime e aforismi si reggono solo se hanno dietro una forza costrutiva solida e meditata. I due esempi riportati sopra aprono all’immaginazione un mondo senza alcun limite se non quello della propria fantasia.
Altri esempi di flash writing? Le vignette di Vauro..:)

PS. il titolo è tratto da Joyce Carol Oates.